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La biografia di Mario Tchou

Figlio di un diplomatico cinese, riuscì a progettare e realizzare il primo computer a transistor della storia

Mario Tchou mostra i prototipi all'interno del Laboratorio Ricerche Elettroniche

 La storia non si scrive con i se o con i ma. Lo sanno tutti, anche i bambini della scuola primaria. A volte, però, è bello lasciar viaggiare la fantasia e immaginare che la storia deviasse dal suo percorso e prendesse vie alternative. Ad esempio, quale sarebbe stata la storia dell'informatica se Mario Tchou e il suo autista non fossero morti il 9 novembre 1961 a causa di un incidente stradale? Domanda cui è difficile rispondere con esattezza, ma si può star certi che sarebbe stata certamente differente. E molto meno “appiattita” sugli Stati Uniti d'America.

Chi era Mario Tchou

Ingegnere elettronico, Mario Tchou era nato a Roma nel 1924. Figlio di un diplomatico cinese presso la Santa Sede, Mario studiò e si formò in Italia. Nel 1955, dopo varie esperienze accademiche negli Stati Uniti, venne richiamato in Italia da Adriano Olivetti a dirigere il Laboratorio Ricerche Elettroniche (LRE) dell'azienda di Ivrea. Nel giro di pochi anni il laboratorio pisano (la sede del LRE era nel cuore della città Toscana) divenne uno dei centri di ricerca più avanzati al mondo, in grado di progettare e realizzare alcuni dei computer e dei calcolatori più avanzati del tempo.

 

Mario Tchou in una foto dei primi anni '50

 

L'esperienza del Laboratorio, però, si interruppe ben presto. Adriano Olivetti, che sul progetto del LRE aveva investito con forza e convinzione, morì nel 1960; analoga sorte toccò a Tchou, scomparso in un tragico incidente stradale sull'autostrada Milano-Torino. Da quel momento in poi l'Italia sparì dai radar dell'informatica mondiale, favorendo di conseguenza il monopolio delle sette sorelle statunitensi nel campo dei mainframe.

Italia – Stati Uniti, andata e ritorno

Mario Tchou nacque a Roma nella prima metà degli anni '20 e visse nella Capitale italiana sino al termine del secondo conflitto mondiale. Si diplomò presso il Liceo Torquato Tasso nel 1942 e si iscrisse presso la Facoltà di Ingegneria Elettronica dell'Università La Sapienza. A metà del terzo anno di corso, però, si trasferì negli Stati Uniti per completare il suo corso di studi. Nel 1947 ottenne il Bachelor in Electrical Engineering (equivalente alla Laurea Triennale in Ingegneria Elettronica) presso la Catholic University of America. Nonostante la giovane età, Mario mostrava qualità e intuizioni superiori a molti scienziati dotati di maggiore esperienza. Venne quindi chiamato a insegnare presso il Manhattan College e nel 1949 ottenne il Master of Science (equivalente alla Laurea Magistrale in discipline scientifiche) al Polytechnic Institute of Brooklin. Ciò gli valse la chiamata da parte della Columbia University, che prima gli affidò una cattedra da assistant professor, per poi metterlo (nel 1952) alla guida del Marcellus Hartley Laboratory.

L'eco dei successi ottenuti oltreoceano da questo giovane ingegnere elettronico arrivò anche in Italia. Nel 1954 Adriano Olivetti lo convinse a tornare nel suo Paese natale offrendogli la direzione del Laboratorio Ricerche Elettroniche (LRE) di Pisa.

L'esperienza nel Laboratorio

Appena tornato in Italia, Tchou si occupò in prima persona di selezionare gli ingegneri e i fisici da impiegare all'interno del Laboratorio di Ricerche Elettroniche. Uno dei requisiti fondamentali era la giovane età. “Perché le cose nuove – era solito dire Mario Tchou – si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria”. L'ingegnere d'origine cinese si circondò di alcune delle menti più brillanti – e giovani – del suo tempo, formando un team lavoro snello e produttivo.

L'obiettivo originario era quello di collaborare con alcuni professori dell'Università di Pisa nella progettazione e costruzione della Calcolatrice Elettronica Pisana (CEP), ma gli uomini diretti da Tchou riuscirono a superare di molto le più rosee aspettative. Nel 1957 Mario Tchou mostra ad Adriano Olivetti il primo prototipo sfornato dal suo gruppo di lavoro: un calcolatore dalle funzioni molto avanzate, il cui funzionamento era ancora basato sulle valvole termoioniche. L'ingegnere italo-cinese non era però soddisfatto. Si chiuse nuovamente in Laboratorio e, nel giro di appena 12 mesi, fu in grado di sfornare un nuovo prototipo, questa volta realizzato esclusivamente con transistor.

Il lavoro del Laboratorio pisano poteva dirsi concluso. Olivetti decise di chiudere la sede toscana e di trasferire tutto il team di lavoro a Borgolombardo, nei pressi di Milano. Qui viene dato il via alla produzione industriale (e distribuzione commerciale) del primo computer a transistor della storia dell'informatica. Un vero e proprio orgoglio per l'azienda di Ivrea: la macchina venne svelata in anteprima alla Fiera di Milano davanti al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.

L'Olivetti ELEA 9003

In quel di Borgolombardo venne quindi avviata la produzione dell'ELEA 9003 (Elaboratore Elettronico Aritmetico), computer ad altissime prestazioni – per il 1959, naturalmente – che non aveva uguali in tutto il mondo. L'ELEA 9003 era un computer multitasking, in grado di far girare fino a tre programmi in contemporanea e dotata di un design innovativo e funzionale.

 

Olivetti ELEA 9003

 

La potenza di calcolo, circa 8.000-10.000 istruzioni al secondo, fu per anni superiore a quella dei computer realizzati dai concorrenti d'oltreoceano. La memoria a nuclei di ferrite disponeva di 20.000 posizioni (era però possibile espanderla a 40.000) e in ogni posizione era possibile salvare un solo carattere alfanumerico. Un'istruzione era composta da 8 caratteri ed era letta in 80 microsecondi. Il computer non era dotato di un sistema operativo e poteva essere programmato all'occorrenza dandogli in pasto istruzioni in linguaggio macchina.

Questo, probabilmente, era il più grande limite dell'ELEA 9003. Di ciò ne era cosciente lo stesso Mario Tchou che, nonostante il successo commerciale del suo computer, decise di svilupparlo ulteriormente.

Verso l'infinito

A cavallo tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 Mario Tchou e il suo gruppo di lavoro archiviarono i progetti dell'ELEA e iniziarono a progettare un nuovo computer da zero. Il punto di congiunzione tra il vecchio ELEA e il nuovo progetto, naturalmente, era il transistor: rispetto alle valvole assicurava prestazioni migliori ed aveva una vita media più lunga (senza considerare il fatto che Olivetti aveva creato una fonderia con il solo scopo di produrre transistor).

 

Mario Tchou con Roberto Olivetti

 

Il nuovo progetto, però, era basato su una nuova architettura hardware e, soprattutto, su una nuova architettura software. Il nuovo computer avrebbe utilizzato il linguaggio di programmazione Palgo (un derivato dell'ALGOL), ma l'improvvisa morte di Tchou – che si stava recando a Ivrea per illustrare gli ultimi avanzamenti del suo progetto – impresse un colpo mortale al lavoro dell'intero Laboratorio.

Poco prima di morire, Mario Tchou si lasciò scappare una frase a suo modo profetica. “Attualmente – disse Tchou – siamo allo stesso livello dei Paesi più avanzati nel campo delle macchine calcolatrici elettroniche dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo Stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo di Olivetti è relativamente notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dello Stato”. Tutto vero, con una piccola eccezione. Grazie al prezioso lavoro dell'ingegnere italo-cinese, i computer Olivetti non erano allo stesso livello di quelli statunitensi – IBM in primis. Erano di gran lunga migliori per prestazioni ed ergonomia. Ma la storia, come sappiamo, è imprevedibile e scelse per lo sviluppo del mondo informatico una strada completamente differente.

 

14 dicembre 2013

A cura di Cultur-e
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